La dimenticanza

 

7.02, la voce di Thom Yorke segna l’ora della sveglia, anche questa mattina No alarms porterà con sé no surprises, din, una notifica sullo smartphone segnala livelli di polveri sottili nell’aria al di sopra della media tollerata, la Protezione Ambientale dice di RIDURRE-GLI-SPOSTAMENTI-E-LIMITARE-LE-USCITE-OGGI-SCIOPERO-DEI-MEZZI-PUBBLICI, cazzo, proprio oggi che ha finalmente appuntamento con Eugenia.

Preme svogliatamente l’interruttore per sollevare la serranda. La tapparella si alza e dalle sue vertebre, srotolate una ad una, filtra una luce giallastra, il riverbero trattenuto di un sole lontano anni-fumo. Anche oggi meglio respirare la sua puzza di umano trentaduenne, anziché arieggiare la stanza. Quand’è che la città è diventata improvvisamente un posto da cui difendersi?

Orlando si trascina dal letto all’angolo cottura in cerca di caffè solubile; quello vero, che profuma, non lo compra da un po’. Avrebbe un paio di progetti da riguardare per conto del suo capo architetto, roba con arredi da duecentomila euro, che diventano sei all’ora nelle fatture intestate a lui (“La marca da bollo ce la metti tu, no?”). Poi ci sarebbe da scrivere il post per la campagna pubblicitaria della chef vegana, due bozze da finire per un volantino del comitato Amici dei Gatti. Ma non ne ha voglia. Potrebbe andare a correre, sgranchirsi le gambe, magari in quella macchia marrone-verde che c’è poco distante da casa. Ma non piove da sessanta lune e a quanto pare è più salutare ubriacarsi in un bar che fare jogging all’aperto. Din, 8.03, CODE-E-IMBOTTIGLIAMENTI-DI-AUTO-E-MEZZI-PESANTI-CAUSA-SCIOPERO-TRASPORTI-PUBBLICI-CONSIGLIATO-USO-MASCHERA-AI-PEDONI.

Una rapida doccia, un paio di jeans e una felpa ed è pronto ad uscire. Che si fottano il Ministero per l’Ecologia, la protezione civile e gli stronzi del Comune che gli hanno imposto temporizzatori per i flussi d’acqua. Esce di casa, il cielo si schiarisce: quali polveri sottili, sta spuntando pure il sole. Na bella jurnata’e sole. Cammina nell’alternanza di palazzoni e casette che costituiscono la strana tessitura del quartiere, del suo quartiere da qualche anno a questa parte. Le macchine passano, quelle più lente sparano bassi troppo alti per l’ora mattutina, le altre, quelle dirette ai Posti di Lavoro con la Maiuscola, scorrono via veloci. Un ragazzo con la pelle olivastra gli scivola accanto, la faccia sfatta, trascinando la sua bicicletta e un gigantesco zaino per consegne cibo a domicilio, poi viene inghiottito nella folla che si accalca vicino all’ingresso della metro.

Solo per oggi Orlando ha tempo da vendere, tempo per camminare, fin quasi a dimenticare il perché del suo andare. Calpesta marciapiedi che si interrompono di colpo, è inghiottito da vialoni trafficati, allinea i passi in quella terra di nessuno stretta fra una striscia di vernice bianca sul cemento e un guard-rail. Avanza inalando aria grigia, ma sopra il cielo è azzurro. Quando rivedrà Eugenia il tempo, di colpo, non sarà più abbastanza, ma finché cammina in questa periferia del mondo tutto è ancora lontano, possibile. Lodata sia l’atmosfera pestilenziale, lodati lo sciopero e la strada ancora da percorrere fino a un quartiere popolare appena fuori dal centro, luogo prescelto per l’appuntamento perché “è qui che c’è la vera vita”. Per lui la vera vita era quella passata nel cuore di un’altra città molto più a nord: corsi all’università, viali alberati e bar con biciclette appese al soffitto. Ma è un ricordo lontano o forse del tutto costruito e in verità tira a campare qui da sempre, fra la spazzatura e i fiori, scopre eroi fra le alghe marce.

I primi tempi, Eugenia lo metteva alla prova con domande improvvise e assurde. Assieme costruivano mondi con le parole, le loro città ideali superavano per perfezione qualunque schema ippodameo. Poi lei sparava: “Mi lasceresti se pesassi cento chili? Mi verresti a recuperare se ti chiamassi dall’altra parte del mondo?”. Orlando, spiazzato, non rispondeva. L’ultima volta che l’aveva vista stava partendo per un viaggio in Nepal. Avevano dormito assieme, poi l’aveva accompagnata fino a una desolata autostazione per linee dei poveri (benefici del vivere in periferia) da dove sarebbe iniziata la lunga strada verso oriente. Avevano bevuto un caffè sciacquato, storditi dalla sveglia alle 4, da una partenza di cui non si sapeva il ritorno. “Ci rivediamo, no?” gli aveva detto lei, prima di salire sul pullman. Lui aveva annuito, con un leggero groppo in gola, poi si era voltato e aveva camminato in direzione di casa. Uno, due, sei passi. Si era fermato, aveva esitato un attimo e si era voltato. Eugenia lo guardava dal finestrino, gli aveva fatto ciao con la mano sorridendo. Lui aveva sussurrato, più che altro a se stesso, un “ti aspetto”.

Passando sotto un cavalcavia trova un uomo che frigge salsicce, facendo un gran fumo, mentre le auto gli sgusciano accanto. Orlando prende un panino con cotoletta, ormoni e salute, ma sempre meglio che un calo di zuccheri. La strada è ingolfata di veicoli, un inferno di rombi sordi e odore di benzina, più denso e rumoroso man mano che le vie si fanno più strette, attorcigliate.

Col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, Eugenia era sparita, respirando aria migliore ai piedi del K2. Saranno meglio anche gli uomini, a seimila metri?

Orlando la aspetta in una piazzetta “riqualificata”: fra tre alberi spennacchiati stanno accumulate lattine di birra vuote. Eugenia arriva come al solito non si sa bene da dove, in un flusso ininterrotto fra i messaggi sul telefono, “sono all’angolo”, “non ti vedo”, e l’essere lì materializzata. “Ti sei tagliata i capelli”, le dice, e l’abitudine gli farebbe allungare una carezza ma si ferma in tempo. Vagano senza meta, mentre lei racconta degli otto mesi passati e gli offre il tè e le arance e pure questo angolo di mondo inquinato sembra migliore per riflesso al casino colorato di Katmandu. Orlando abbozza risposte vaghe, il lavoro non entusiasmante ma regolare, le grane sempre uguali. Si trovano a camminare tra stradine strette, a misura solo di motorini impazziti, fra palazzi scrostati, in lotta da sempre contro la forza di gravità. Sfilano fra murales variopinti e le A degli anarchici, fanno lo slalom fra le cassette di legno e il ghiaccio, avanzati dal mercato del pesce. “È il solito bordello, sta città” ride Eugenia. Orlando afferra due spremute di melograno, gliele porge una ragazza – Pina, secondo il cartellino sulla felpa – dal volto pallido, lunare.

– Sono contento di essere qui con te.

– Sono contenta anche io.

– Perché sei sparita nel nulla?

Eugenia si blocca, incapace di risposte, aggiunge silenzio al silenzio passato e quel vuoto sembra di colpo più rumoroso di qualunque sciame di pensieri. A volte, in lunghi mesi di niente, un’idea irrazionale ha attraversato Orlando, che si è chiesto cosa sarebbe successo se in quella piazzola desolata, alla partenza per il Nepal, non si fosse voltato a guardare Eugenia. Al momento dei saluti la abbraccia stretta, prima di riconsegnare la sua ombra al grigiore inquinato della città. Se ne va, senza più girarsi e la perde per sempre.

Trionfalmente, dolorosamente Orlando non capì: non dalla volontà divina ma dall’inconoscibilità dell’umano deriva l’ingorgo nel petto.

© Città ideale

Miriam B.

Lascia un commento